domenica 8 settembre 2019

Occhio nero

Ci avevo messo poco a farmi conoscere.
Quel primo giorno entrai in classe presentato dal maestro, la scuola era già iniziata da una settimana.
Ha subito sottolineato che venivo da Roma, e da quel giorno nessuno si è mai rivolto a me usando il mio primo nome ma semplicemente con l’appellativo de “il romano”.
Di volti amichevoli ne vidi pochi, giusto due ragazzine che mi sorridevano dal primo banco, gli altri, soprattutto i maschietti, sembravano ostili.
Alla campanella un certo Matteo, spalleggiato da Andrea, mi comincia a punzecchiare : “grullo, facci ridere, parlaci romano”, gli altri mantenevano coraggiosamente le distanze.
Il biondino ride, e continua a gracchiare rivolgendosi un po' a me e un po' ai compagni.
Lo guardo con aria di sufficienza, lui e il suo vice, come fossero moscerini.
Se questa è la roba che “gira” qui, tempo una settimana sarò il boss della scuola.
Il temerario continua ad infastidirmi, deve essere anche il più stupido perché non avverte il pericolo, l’altro sembra averlo già mollato.
Mi giro con calma, accenno un mezzo sorriso, poi gli tiro un calcio sulla tibia sinistra con violenza, improvviso.
Cade rovinosamente a terra come un sacco.
Mi chino sul suo viso e gli dico “ti sei fatto male? Sei inciampato?” tirandogli i morbidi capelli biondi fino a strappargli pezzi di cute, e aiutandolo così “cavallerescamente” ad alzarsi.
Non aveva ben capito cosa era successo, un misto di smorfia di dolore ed incredulità stampato sul viso lentigginoso, non sapeva se piangere o andarsi a lamentare dal maestro.
Optò per il silenzio.
Mai più mi rivolse la parola per i 3 anni a venire.
Gli altri erano schifati dalla scena, si vedeva il disprezzo nei loro volti, ma nessuno osava fiatare.
Però quella ragazzina, a dire il vero un po buffa con i suoi occhiali così grandi, continuava a sorridermi estasiata.
####### si chiamava.
Qualsiasi cosa avrei fatto per i prossimi 3 anni sarebbe stata sempre ben fatta per lei.
Dietro il suo sorriso intravedevo, a l'ultimo banco, un tozzo nanetto che mi guardava in cagnesco.
Romeo aveva osservato tutto ed aveva tratto le sue conclusioni.
Che sia lui il “capetto” qui?
Beh, se è così lo scoprirò.
Sembra un po' emarginato però.
Forse più di me, considerando che è del posto e che fa parte della classe da chissà quanto.

Passano due giorni, sono al terzultimo banco centrale, un certo Walter mi sta silenziosamente accanto senza parlare.
Non lo stimolo a farlo, preferirei esser solo, ma non potendo penso che questo sia il compagno migliore che mi potesse capitare.
Perlomeno non è invadente.
Ogni tanto mi volto dietro alla mia destra, dal ultimo banco c’è sempre questo Romeo che mi guarda con aria di sfida.
Invece che infastidito sono eccitato, non vedo l’ora di menar le mani.
Voglio sistemarlo per bene il nanetto, sembra un osso più duro dell’altro.
Penso, fra me e me, che non vedo l’ora di fargli male.
Il pretesto non tarda ad arrivare, è lui a cercarlo.
Bravo.
Due spinte, qualche insulto in giardino e dopo due secondi siamo avvinghiati come due pitoni nella terra.
Il piccoletto è forte, a mani dalla presa energica e si dimena come un’anguilla, cerco di sbattergli la testa su della ghiaia, ma lui mi sfugge sempre, scalciando come un forsennato.
Sembra quasi che mi odi, ci mette un’energia, tenta anche di mordermi.
Ma dopo un po di lotta ha la peggio, ora si sta coprendo il volto a proteggersi da i miei calci e pugni, ma non implora di fermarmi.
Improvvisamente sento una mano che, come una morsa, mi prende per il collo da dietro e mi alza di peso.
Sono le manone del maestro che mi allontanano dalla mia vittima, mi scuotono vigorosamente e mi danno un energico scappellotto sulla testa castana.
“Cosa state facendo!”
Grida l’omone reduce della grande guerra rivolgendosi a me.
“ma maestro……” accenno io, e via altro scappellotto sulla nuca.
Mi cheto, già intravedo i guai che passerò a casa e l’ira di mio padre.
Sento gente che confabula ed il maestro che ammonisce con gravità, ma non distinguo cosa dicono, sono sovrappensiero.
Male.
Non noto che Romeo si è alzato e mi corre incontro minaccioso.
Mi colpisce con tutta la sua forza sul viso, dopo di che sento un dolore ovattato su l’occhio, come avessi un grosso cerotto sulle palpebre.
Cristo santo, tempo pochi minuti e l’occhio diventa violaceo.
Nessuno mi aveva mai fatto un occhio nero.
Che umiliazione.
Non mi frega neanche più dei guai che passerò a casa.
Appena posso lo ammazzo, giuro.
Mi porterò un coltello dalla cucina, voglio scannarlo a coltellate, qui a scuola, davanti a tutti.
Intanto ####### mi guarda, e continua a sorridermi, ma stavolta il suo sorriso è come di pietra, una paresi.
O è preoccupata o è impressionata, forse inorridita.
Ma sembra non voglia farmelo vedere.

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L’asfalto del cortile è rovente, le scarpe di tela lo percorrono in lungo e largo alla ricerca del pallone.
Finalmente ne recupero uno a centrocampo, mi involo verso la porta avversaria.
La palla sul terreno di gioco è come una bella donna, ti sembra di averla conquistata e invece è lei che ha deciso di venire da te.
Deciderà anche quando fuggirti.
Tutti ti osservano, altri cercano di rubartela, anche commettendo scorrettezze.
Il momento supremo di solitudine, tu contro il mondo.
Non ti agevolerà certo il compito, rimarrà con te solo fino a quando avrai la forza di trattenerla, poi passerà ad (un) altro, e tu, prima disperato, poi speranzoso, tornerai a rincorrerla.
Non c’è da fidarti neanche del tuo migliore amico se è con lei che stai correndo.
Alle mie spalle, come una muta di cani che insegue una volpe, percepisco l’ostinata determinazione degli altri a raggiungermi.
Alberto mi affianca, la falcata è regolare e potente, urla “passala!”.
“Fottiti” è il mio primo pensiero,
“se mi presenti tua sorella di seconda media” il secondo.
Me la sono sudata questa opportunità, non ti lascerò l’onore di infilarla tra i vecchi pali metallici del cortile.
Sono quasi alla meta, il portiere avversario tentenna, non sa se venirmi incontro o aspettarmi piazzato tra i pali.
Non si muove, gli leggo l’esitazione nello sguardo, penso che sarà più facile.
Lo spazio alla sua sinistra è invitante, non ci penso due volte, piccola rotazione del busto e colpisco la palla di piatto destro.
Scheggia il palo e scivola via verso le aiuole.
“Maremma bucaiola!” Urla Alberto “La vuoi passare!?”.
Gli do una spinta, spero abbia capito che non mi deve seccare.
Non me ne gira una nel verso giusto oggi.
È che sono troppo nervoso, O####### mi fa questo effetto, da quando l’ho vista la prima volta.
L’ho appena spiata dalla vetrata del cortile, era ai giardini di fronte la scuola, due libri e un’agenda tenuti dall’elastico rosa, la gonna al ginocchio, e un gruppo di ragazzoni con i vespini modificati che le ronzano intorno come fosse miele.
Rideva compiaciuta.
Sembra che flerti con tutti indistintamente, un paio di volte l’ho vista anche salire in macchina con qualcuno molto più grande di lei.
Lo odio e lo amo quel suo sguardo, così ambiguo, sembra accogliente e comprensivo all’apparenza, ma in realtà spietato.
Tiene a farti sapere che è lei che comanda, si legge nelle sue nere pupille la consapevolezza del suo dominio sull’universo (maschile).
Era passato più di un anno dall’occhio nero di Romeo, avevo deciso di non vendicarmi, forse per rispetto a #######.
Mi riempiva di attenzioni, aveva cambiato gli occhiali, era ancor più buffa se possibile.
Faceva sempre finta di avere la doppia merenda in cartella per puro caso, in realtà era per me, con l’immancabile cartoncino di Billy all’arancia.
Non mi piaceva molto il prosciutto crudo (il grasso mio dio mi dava il voltastomaco) con il formaggio, anzi per niente, ma facevo ugualmente finta di andar ghiotto di quei panini per farla contenta, subito dopo mi rifacevo la bocca con un Kinder.
Io e Romeo convivevamo nella stessa classe senza problemi, in fondo “lavoravamo” entrambi per Renato, era stato proprio Romeo ad avermi presentato.
Piccoli "lavoretti" di ogni genere.
Ed è Renato che mi fece conoscere O######

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Aveva una canottiera grigia che lasciava intravedere molte delle sue splendide forme,
adagiata sul letto con il braccio destro sosteneva il libro, il sinistro aveva il gomito piegato verso l'alto, la mano tra il cuscino e la sua nuca.
"Finiscila".
"Non mi seccare, non vedi che devo studiare?"
"Tua madre lo sa dove sei?"
Le odiavo quelle frasi, me le diceva sempre e solo per darmi del ragazzino,
per ricordarmi chi ero, cosa ero secondo lei.
Come quando mi incontrò vicino a Castello I #########, con aria superiore mi disse
"e tu che fai qui?"
Quattro chiacchiere di fretta perché come sempre l'aspettavano, e poi l'affondo:
"la conosci la strada di casa?"
"Vuoi che ti accompagno?"
Magari un altro avrebbe pensato ad una gentilezza, ma io ho sempre avuto il dono di capirla meglio di altri, c'era un ghigno impercettibile nel suo viso, gli occhi si illuminavano solo quando diceva queste cattiverie, ci godeva ad umiliarmi, ma non lo ammetteva neanche a se stessa.
"Ce la dovrei fare a tornare, non ti preoccupare"
E via, altra fiamma nei suoi occhi, compiaciuta di essere andata a segno, ancor più di vedere che incasso e non demordo.
Mi da un bacio sulla guancia, come avrebbe fatto se fossi stato il fratellino minore,
"allora corri a casa ometto"
Mi allontanava ma non mi cacciava.
Mi facevo sempre più intraprendente .
Mentre leggeva ho provato ad accarezzarla il piede,
è stato fermo per un paio di secondi, poi è scattato all'indietro,
e ancora in avanti, quasi mi dava un calcio in faccia.
Due secondi sono tanti.
Lo capiva anche un ragazzino di dieci anni.
O forse poteva capirlo solo "quel" ragazzino di dieci anni.
Aveva malizia quel ragazzino.
Troppa per la sua età.
Sono stato buono per pochi minuti, seduto sulla poltrona.
Facevo finta di leggere il mio di libro, invece guardavo lei.
Quell'ascella scoperta.
Il braccio alzato faceva intravedere l'attaccatura del seno.
Avendone uno avrei ucciso il mio migliore amico per assaporarla,
per passarci sopra la mia lingua vogliosa.
Una voglia che sfiniva l'anima.
Una voglia che sapeva già di colpa.

a 2014

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